giovedì 1 maggio 2008

PUNTO ESCLAMATIVO

Nell'iperattivismo quotidiano ci si ritrova, spesso, soli. Egoisticamente, cinicamente soli. C'è una forma di affermazione che l'uomo vive su di sé. Un affermazione di sé sopra di sé. Sé, Che poi è il compagno di banco. Il vicino di sedia, colui che coabita la striscia pedonale o il rosso al semaforo.
Un'affermazione non può non passare se non attraverso la sopraffazione. Perchè non esistono affermazioni, quelle stentoree, quelle perentorie, che non siano prevaricatrici. Sono supportate dalla ragione, hanno a sostegno delle tesi, vengono da una logica deduzione o da un civile scambio dialettico. Bene. Ma alla fine dell'affermazione, il punto esclamativo è il vessillo che pianti sul terreno ideologico dell'avversario. E' il segno della conquista della rugbystica yard. E si finisce soli. Perchè quando si è chiuso il ragionamento con un' affermazione vincente, si è comunque perso qualcosa.
Cazzo che vuoto! Ed il punto esclamativo te lo infilzi nello stomaco. Quello stesso vessillo che, prima, avevi piantato alla fine della corsa verbale, dalla sella della tua sintassi galoppante.
E così è andata anche oggi. Quando alla fine della giornata ti accorgi che dietro il tuo trattore iperproduttivo hai lasciato tanti punti esclamativi. Messi, (ch) e non germoglieranno. E scopri una delle mille storie che da sopra del tuo trattore non riesci neanche ad ascoltare. Che ignori. Quella di chi vede cambiare la sua vita, radicalmente per l'improvvisa morte del padre. L'attività di famiglia, il ristorante non è più sostenibile. Lo chef è il vantaggio competitivo. E' il perché alla sera c'è gente o non ci sono coperti. Si chiude. Perché una giovane figlia, ferita nell'intimo, non riesce a tenere duro. Non ce la fa. E lascia l'attività.
Adesso, tanti piccoli lavori, tante piccoli parti come se la vita fosse fatta da tanti film. Sperando che un bravo regista ti prenda finalmente per un ruolo più consono. Certo, nel mondo del cinema o del teatro, chi durante la gavetta faceva la prima puttana generalmente ha avuto, poi, grande successo. Ma la vita non è il cinema. E non è il teatro anche se, spesso, è una tragedia. E la puttana la si deve fare prostituendo la propria natura, le proprie inclinazioni allo strapotere borghese. Quello che premia l'arrivismo del manager napoleonico, piuttosto che la bonaria e un po' pacioccona maestra d'asilo. Che preferisce il giovane smaliziato e sgomitante, al più pacato e riflessivo analista. Una società che sostituisce le segretarie come inutili commodity. Una società, la nostra, fatta di figli che non hanno ancora imparato a rispettare la madre. Che non hanno ancora capito che è una donna.

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